Per motivi facilmente intuibili – legati primariamente al visibile coinvolgimento emotivo che manifesto quando la squadra di calcio per cui faccio il tifo gioca una partita (soprattutto se importante) – ho provato più volte a spiegare, e dunque a spiegarmi, cosa significa “tifare”, “fare il tifo”. Scrivo questa cosa qualche giorno dopo una dolorosa (per usare un eufemismo) sconfitta della mia squadra, con tutta la difficoltà che un tifoso può comprendere.
Ci sono due momenti a cui faccio riferimento se devo pensare ad un’origine, alla fonte del mio “tifo”, con tutta la difficoltà legata all’individuazione di un punto di partenza: nella vita, infatti, non c’è mai un punto zero dell’esperienza, ma c’è sempre un mescolamento di vie che producono ciò che abbiamo di fronte agli occhi. Ai miei, però, i due ricordi sono collegati l’uno all’altro, due tempi regolamentari di una partita a cui ho oramai consegnato – grazie all’immaginazione di cui occorre sempre servirci – l’onere di essere i miei blocchi di partenza.
Primo tempo
È la fine di maggio del 1996. Ho un ricordo vaghissimo di quel periodo, avevo appena compiuto 6 anni. Eppure ho un immagine chiara e limpida che torna ciclicamente nella mia testa: mio padre di vent’anni più giovane che mentre prepara la colazione risponde alla mia domanda su chi avesse vinto la partita la sera prima. Lui alza lo sguardo dai fornelli e mi dice che abbiamo vinto noi, «ha segnato penna bianca», dice con un sorriso. «E poi ai rigori Tyson ne ha parati tre!», conclude. Io esulto.
Di quella partita ricordo chiaramente la sua coda, ciò che ha fatto seguito. Ricordo il poster appeso in camera mia e preso da un giornale da tifosi, che tengo in casa ancora come una reliquia sacra. Su quella foto c’è il mio mito da bambino che, seduto sulle ginocchia e con delle basette improbabili, urla sordamente guardando la coppa appena vinta.
Quella maglia anni ’90 con le stelle sulle spalle fu uno dei capi più indossati dal piccolo bambino che ero; sul retro avevo un cognome stampato col bianco, composto da due lemmi. Sotto al nome lo straordinario numero “10”. Eppure io giocavo in porta.
Secondo tempo
La tribuna scoperta ci lasciava sotto la luce bianca del sole di gennaio. La classica partita di calcio alle ore 15:00 di una domenica sportiva. Una partita che, per quanto successo l’anno prima, suonava particolare. Molto particolare.
Il “mio” numero 10 sedeva in panchina, e questa cosa mi sembrava strana, mi dava fastidio. Ricordo di aver chiesto una decina di volte a mio padre quando il nostro allenatore si sarebbe degnato di farlo entrare. Tiri da una parte e dall’altra, una partita frizzante, tirata. Ricordo il divertimento e il patimento. Al posto del portiere che aveva parato i tre rigori quella sera di maggio, trasferitosi in un’altra squadra, giocava un portiere totalmente diverso: alto, sottile, quasi esile.
Ad un certo punto, in maniera quasi improvvisa, arrivò quella ripartenza che ricordo a memoria: break sulla nostra metà campo, l’olandese con gli occhialini è devastante palla al piede, controllandola solo di sinistro corre perpendicolare alla porta almeno cinquanta metri di campo, quasi schiacciando gli avversari. Attira uno dei due centrali di difesa che, quindi, lascia solo il nostro attaccante con la maglia numero “9”, che insacca in diagonale: da sinistra a destra.
Io urlo e salto. Forse, sotto il cappotto e la sciarpa, la maglia col numero “10” si stende. Mio padre mi riacchiappa e mi dice che siamo in mezzo ai tifosi di casa, ai tifosi del Perugia, perciò: “non fare lo scemo”.
La mia prima volta allo stadio; non avevo ancora compiuto 10 anni. Altro che giostre.
Unire i punti
Se sono questi due i punti dai quali prende le mosse il mio essere tifoso, essi a loro volta, prendevano le mosse da qualcos’altro. Da una tensione emotiva inspiegabile, da una voglia incontrollabile di urlare ai nostri gol, dalla volontà di assomigliare a quel numero “10”, dalla bellezza che vedevo nei gesti e nei movimenti di quel francese con la numero “21” sulle spalle, dalla potenza espressa dal corpo di quel portiere così pesante. Il sogno di un bambino che guarda con gli occhi stupiti e curiosi tutto ciò che attraversa il suo campo visivo e a qualcosa deve pur affezionarsi.
Unendo i punti, partendo da questi primi due, posso ripercorrere tappe della mia esperienza legate ad una partita di calcio, alle vicende della mia squadra (non sempre chiare e che non sempre hanno visto la mia approvazione), ai gol segnati, agli addii con le lacrime.
Il tifo è stimolato da qualcosa che non riusciamo a vedere, né a governare. È lo stato di superamento di ciò che sei, è la voglia di vincere che ha base prettamente evolutiva. E tuttavia è ciò che dà realmente senso alla contesa sportiva. Questa, infatti, ha – teoricamente – senso soltanto per chi la compie, per chi ha le mani sporche di fango. Ciò che la rende affascinante da fuori non è solo l’estetica (cosa di cui, soprattutto nel calcio, sono follemente innamorato) ma è il tifo. Il fatto che qualcuno, da fuori, qualcuno che non appartiene alla contesa, che non gioca nulla di sé in quella partita, che non ha niente di suo dentro quel campo, abbia e provi un cieco coinvolgimento emotivo.
Lo sport, pertanto, è quello che è per chi lo fa; ma acquisisce un senso generale e un’importanza sociale solo e soltanto grazie a chi, dall’esterno, lo utilizza come mezzo per definire se stesso. Ed è molto difficile spiegare più di così. L’unica cosa che ho sempre pensato è che nessun tifo è migliore dell’altro. E l’ho sempre pensato davvero, così come ho sempre pensato che non esista un amore migliore di un altro. E l’amore, poi, non lo riesci mica a spiegare; così come non riesci a spiegare a un bambino di dieci anni che non deve esultare al gol della sua squadra.
Cari tifosi: siamo tutti sulla stessa barca. Mezzo imponente ma fragile, qualcosa di particolare e mai assoluto. Il tifo è come le opinioni: non ha a che fare con la verità. Eppure è bellissimo.