Caro amico-lettore,
ti ricorderai del particolare rapporto che ho con la mia terra, con quella vallata che ricopre lo spazio e circonda lo sguardo. A volte toglie il respiro, perché lo stupore si compone di due elementi chimici: la meraviglia e il terrore.
(La meraviglia che mi genera un luogo non convenzionale – con un verde che non ho ritrovato da nessun’altra parte, dentro nessun altro bosco –; il terrore nato da un inevitabile senso di oppressione e chiusura. Questa duplicità immanente mi sembra sempre più una sensazione vera: dovrebbe essere più o meno la stessa che prova l’acqua di un fiume mentre scorre a valle, ignara del fatto che prima o poi arriverà al mare e schiacciata da un letto sempre più stretto.)
Volare al di là di quella vallata significa aprirsi ad orizzonti diversi illuminati dallo stesso sole. Significa anche mettersi nella posizione di poter affrontare altre vallate, diversamente belle e diversamente terribili.
Nei giorni scorsi Milano era bagnata da una luce trasversale e tiepida, la città leggermente spolverata da un vento gradevole. Ho incontrato moltissimi volti che non conoscevo e degli sguardi amici. Ho stretto mani decise, risposto a domande, visto posti che conoscevo a metà o non conoscevo affatto, sentito la novità sulla pelle e goduto di quella libertà che ha «solo l’uomo di passaggio».
Il ritorno è stato il culmine di un piccolo attraversamento, la solidità dell’altra sponda. Una cosa che mi fa paura, eppure mi conforta.