Sulla prima pagina del libro che ho appena finito di leggere c’è scritto «grazie per aver rischiato». L’inchiostro aggrappato alla porosa carta Adelphi ce lo ha lasciato un mio amico, regalandomi il “romanzo indiano” di Hermann Hesse Siddhartha. Uscito nel 1969, il romanzo è stato oggetto di culto per chi, negli anni a seguire, aveva visto nell’esperienza di Siddhartha un modello e uno stile di vita applicabile al mondo contemporaneo, o almeno a una sua parte.
Sapevo che Siddhartha era stato venerato come un feticcio. L’ho letto, dunque, facendo a meno di tutte le sovrastrutture create da coloro i quali vedeva nel viaggio di Siddhartha il nuovo mantra delle proprie esistenze. L’ho letto come faccio sempre coi romanzi, per quello che sono: storie immaginate. Non che le storie immaginate siano fuffa, tutt’altro: esse sono ciò che ci impedisce di rimanere sotterrati dagli eventi, ed inoltre – come scrive Stefano Calabrese nel suo La fiction e la vita (Mimesis) – ciò che «ci traghetta oltre il presente, nella luminosa palude del next» (p. 32). Fingere, nella consapevolezza che si dimora temporaneamente in un orizzonte di finzione, scrive ancora Calabrese, «può avere un impatto importante e profondo sul modo in cui gli individui si percepiscono e si comportano nella vita quotidiana perché, comportando la simulazione di esperienze socio-emotive, le finzioni rendono più empatico chi vi si immerge» (p. 47). Le storie inventate sono importantissime per chiunque. Il testo ci parla e a quelle parole non possiamo rimanere indifferenti. È tuttavia importante non arrischiarsi a vedere quello che non c’è, o a psicoanalizzare l’autore. Ma vabbè, forse questo è un altro discorso.
Siddharta è uno che cerca, che vorrebbe arrivare «fin là dove riposano le cause ultime, poiché conoscere le cause ultime, questo è appunto pensare» (p. 67). Il suo peregrinare lo lascia solo, gli fa incontrare l’amore di Kamala, la separazione dall’amico fraterno, e infine lo conduce vicino al fiume. Come Eraclito egli lo osserva e trae dall’acqua il più grande insegnamento della propria vita: «mai aveva percepito in modo così intenso e bello la voce e il significato allegorico dell’acqua che passa» (p. 128). Insieme al vecchio Vasudeva, Siddhartha impara ad ascoltare il fiume – perché ascoltando si procede verso il profondo, non si rimane sul pelo dell’acqua. L’acqua che passa ti insegna che il tempo non esiste, e che «nulla fu, nulla sarà: tutto è, tutto ha realtà e presenza» (p. 135).
Hesse imbastisce un piano narrativo molto mobile. Ci racconta la storia di Siddhartha e il suo viaggio e, contemporaneamente, ci parla di un viaggio interiore, di una ricerca della tranquillità dell’animo. Un viaggio che non subisce il tempo, che non lo calcola ma lo asseconda. Siddhartha rischia, si butta nell’acqua, la ascolta passare e prosciugarsi.
Ma Siddhartha vive nell’India del VI secolo, si dirà.
E chi non vorrebbe poter essere Siddhartha, almeno per qualche minuto ogni giorno?
Forse ci basterà guardare il fiume e ascoltarlo un po’. Se il fiume è lontano dovremo immaginarlo. Nel frattempo lui continuerà a scorrere dentro gli argini che lo limitano e lo identificano, fino a che non si butterà in mare e non sarà più “lui”. Solo in quel momento il fiume capirà di aver rischiato durante tutto il suo il percorso e che rischiare è necessario per sopravvivere.
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