Troppo spesso siamo ossessionati da cosa un film, un libro, una mostra fotografica debba dirci; ci focalizziamo sul messaggio, su ciò che deve restare. Sembra quasi impossibile poter rimanere sorpresi. Se la bellezza che sorprende non è accompagnata a una riflessione, a un messaggio, appare sterile, vuota, puro esercizio di stile. Ma se le cose coesistessero nello stesso luogo; bellezza e messaggio? Oppure, se la bellezza stessa – presa nella sua immediatezza – ci dica molto di più di quanto non ci dica la storia?
In Chiamami col tuo nome convivono tutte queste cose: bellezza, storia, messaggio, riflessione. Call me by your name è un film dove (nella versione originale) si parlano quattro lingue e si fa di tutto per raccontare con le immagini qualcosa che sembra indicibile. Il tentativo di mostrare come il limite sia sempre scivoloso e arduo da affrontare. Nella maggior parte dei casi, inoltre, Guadagnino riesce a farci sedere sulla soglia, a farci stare bene. Call me by your name ti ricorda che il cosa ha sempre bisogno del come. E se il come è all’altezza anche il cosa risplende e ti brucia gli occhi.
Nella calda estate del 1983, «somewhere in northern Italy», Oliver – avvenente trent’enne (Armie Hammer) – si trasferisce per sei settimane nella residenza estiva della famiglia di Elio (un’interpretazione fantastica di Thimothée Chalamet), un diciassettenne che trascorre le sue giornate leggendo, trascrivendo musica, suonando il pianoforte e godendosi ampi momenti di relax al fiume. Il padre di Elio è un archeologo che ha accettato di ricevere Oliver per una sorta di affiancamento professionale – quest’ultimo sta scrivendo un libro in cui cita Heidegger in maniera pedissequa, legge i frammenti di Eraclito e di tanto in tanto sparisce non senza aver sorriso ai commensali, congedandoli con un «later» (a dopo).
L’accogliente fotografia e i movimenti di macchina lenti permettono al film di sedersi in un angolo d’osservazione molto particolare; i lunghi piani sequenza (come quello meraviglioso nella piazzetta del paese, dove Elio ed Oliver – intorno al monumento per i caduti della Prima Guerra Mondiale – si raccontano per la prima volta la verità; o l’altra lunga scena di Elio al pianoforte) e le riprese notturne, non sono solo stupende. Piuttosto stimolano una meraviglia soffice, qualcosa che assomiglia alla comprensione intellettuale dei sentimenti provati dai protagonisti sullo schermo. Come se si fosse stabilita una connessione, si fosse rotta la barriera del mio essere qui e il loro essere là. Stare sulla soglia.
Quello che sembra legare Elio ad Oliver («l’usurpatore» lo chiama il primo, all’inizio del film, tradendo una certa gelosia immotivata) è qualcosa che risiede più in se stesso che nel secondo. Oliver rimane sempre un po’ a lato dello sguardo del regista, ma si trova a sua volta catapultato in uno stato d’insicurezza febbricitante.
Non si tratta né di educazione sentimentale né propriamente della scoperta del desiderio, piuttosto Call me by your name prova a descrivere il senso di insoddisfazione insito in ogni desiderio che – una volta consumato e soddisfatto – ne genera uno maggiore. Il film racconta della scoperta di Elio, ma anche di Oliver, che oltre il velo dell’illusione e della rappresentazione c’è un cuore pulsante, uno strato di carne e polpa (come la polpa della pesca calda che Elio penetra, quasi alla fine del film) nella quale dobbiamo provare a sopravvivere. Una scoperta devastante per il ragazzo che, infatti, sa di dover tornare tra le braccia del padre mentre sua madre legge loro un romanzo francese del XVI secolo, sente la voglia e l’esigenza di farsi cadere tra le braccia di Marzia e di tornare ciclicamente al laghetto d’acqua gelata dove ha letto molti dei suoi libri.
Elio si trasforma, cambia, diventa un altro. Provare a descrivere questo cambiamento sembra la cosa più difficile da fare e invece il film lo fa con discrezione e un colore che ti rimane impresso. Il monologo del padre di Elio, sul finale del film, è ciò che inizia a chiudere la parabola narrativa della storia, parlando di accettazione della propria sessualità e confermando l’idea per la quale una comunità come una famiglia aperta e illuminata possa rappresentare il miglior luogo per crescere (ovvero conoscere se stessi).
La parabola si chiude definitivamente, o forse no, in uno straziante primo piano di almeno cinque minuti. Elio è in ginocchio davanti al caminetto acceso di quella stessa casa nel nord dell’Italia: fuori nevica e quello che c’è stato è diventato, oramai, qualcosa a cui destinare meno attenzione rispetto a quello che sarà.