Se anche Philip Roth è morto, allora siamo tutti – davvero – mortali.
Io non me la sarei mai potuta immaginare (e non l’ho mai realmente fatto) la morte di Philip Roth, uno che la morte l’ha sempre sfidata, raccontata, sviscerata, aperta e richiusa come fosse una porta che dà sul retro giardino.
Stamattina molto presto un amico mi ha inviato un sms nel quale scriveva “È morto Roth, cazzo”. Tornando in cucina per fare colazione ho cercato il primo Meridiano che gli è stato dedicato. Mia madre me lo ha regalato per Natale, su mia più che esplicita richiesta, e in questi mesi l’ho sfogliato più volte, senza mai iniziare a leggerlo con costanza. Mi sono cambiato e sono uscito per una lunga giornata di lavoro.
Roth alla fine è uno scrittore mondiale, lo hanno letto miliardi di persone, per quale razza di motivo dovrei provare un sentimento che si accosta alla malinconia, se penso alla sua morte? Perché, per me, Roth è stato e rimarrà un punto di riferimento?
Provo a rispondermi, nel gran frastuono che c’è in questo bar dove mi sono fermato a scrivere, tra ragazzi euforici che bevono spritz e si guardano poco negli occhi.
Perché Roth ha sempre tentato di descrivere ciò che sfugge ad ogni materializzazione: la mancanza. Ciò che manca, la perdita, il venir meno di qualcosa – della gioventù, di un amore, di un genitore, di una condizione favorevole. Niente lo ha affascinato di più: la tutt’altro che remota possibilità che le vite siano un tentativo di sopravvivere a ciò che manca, allo strascico doloroso e lancinante di qualcosa che credevamo nostro e ora è scomparso, lontano. La vita come un continuo allontanarsi e contrarsi. E in questo movimento sapersi dimenare al meglio delle nostre possibilità
E poi questo dare forma alla mancanza, nei suoi romanzi, non decade mai in una controffensiva sociale o nella descrizione di vite che aspirano ad una rivalsa quasi moralistica. Gli uomini e le donne di Roth non sono nemmeno degli sconfitti per sempre e da sempre, per natura. È gente che lotta, ogni santo giorno, che affronta e vive con intensità spropositata ciò che gli accade e decide di far accadere.
Un po’ come il rapporto che Philip Roth ha avuto con la scrittura: un uomo che per cinquant’anni ha scritto, ogni giorno, otto ore al giorno. Ha girato le frasi, le ha cancellate e riscritte, poi rigirate e riviste.
In fondo perché le cose non passano, così come il genio non si trasforma in arte, se non attraverso la fatica.