Una recensione a Dogman di Matteo Garrone
Cos’è che permette a una persona di trasformarsi?
Ovvero, cosa deve accadere affinché un uomo mite diventi cattivo, trucido?
Su questo limite sempre labile e mai pienamente illuminato si muove la storia di Dogman, il nuovo film di Matteo Garrone. Un film – è bene dirlo fin da subito – strepitoso, bellissimo e intenso; girato con una sapienza e una grana fotografica da brividi.
Marcello (Marcello Forte, praticamente perfetto nel suo sguardo sempre apparentemente perso e devastante, quel naso adunco e le mani che in ogni momento trasmettono comunque dolcezza) lava i cani, li accudisce, li asciuga e gli taglia il pelo e le unghie. L’ambientazione è decadente e malinconica, viene subito in mente l’Ostia di Non essere cattivo. Il proprietario di Dogman, Marcello appunto, è un uomo solo, separato e con una figlia che vede raramente e abbraccia in maniera scomposta ma affettuosa. Sopravvive in una realtà nella quale non si può vivere, ma soltanto provare a sopravvivere sperando che un colpo di pistola in testa arrivi, magicamente, al tipo che ti rende la vita ancora di più un inferno.
La mano di Garrone è impressa nella storia, che scorre malinconica e a volte in maniera flemmatica (mai noiosa), sui lunghissimi piani sequenza che seguono gli attori e i loro dialoghi. Quest’ultimi, svuotati dalla classica alternanza campo-controcampo, si caricano di tutto quello che sta attorno alle parole pronunciate, che poi è spesso il centro del discorso. Non ciò che si dice, ma ciò che gli gira intorno, che gli consegna profondità o superficialità.
A volte la macchina da presa (come nella scena del pranzo al sole primaverile) indugia a lungo sui volti: immagini strette e ambientazione sfocata, le scanalature delle rughe che risaltano in una luce contrastata che amplifica l’azione erosiva del tempo sulle persone.
Nelle scene più serene (come quelle nelle quali Marcello porta sua figlia in mare), Garrone sceglie di non strafare e si limita a guardare i personaggi, li lascia sciolti e liberi di essere ciò che sono. Respirano.
C’è solo una scena che sembra volutamente meccanica, schematica, quasi ovvia, quella in questura quando Marcello viene interrogato dal poliziotto con un accento del sud che non ha nessuna intenzione di limitare.
Tutto il resto è uno stupendo affresco di una comunità chiusa in se stessa e che si ritrova ai margini di tutto – sia a livello geografico che economico. Il percorso di un uomo solo che sa di esserlo e non lo fa pesare a nessuno, fino a quando il fondo è stato esperito con violenza.
Mentre l’ultima scena, lunga e intensa, si srotolava sullo schermo, pensavo che sarebbe stata perfetta se ci fosse stata una canzone in sottofondo. S’intitola “Tutto fa un po’ male” e gli Afterhours l’hanno inclusa nel loro disco del 1999 intitolato “Non è per sempre”.
Canta Manuel Agnelli:
“Lo capiremo prima o poi
che non c’è modo di rinascere
senza peccare?
Ma tu hai voglia di rinascere,
o solo che non sai come va a finire?
E forse fa un po’ male, forse fa un po’ male.
Tutto fa un po’ male, tutto fa un po’ male”.
Nella vita di Marcello tutto fa un po’ male, perché – paradossalmente, e nemmeno troppo – tutto può vagamente assomigliare a una cura, a qualcosa che gli permetta di sollevarsi un po’ dal fango. Un’altra illusione sembra attraversargli il volto, un’altra, l’ennesima, delusione: qualcosa a cui non ci si abitua mai.
Marcello è idealmente dentro una delle gabbie nelle quali tiene i cani del suo negozio (i suoi occhi che guardano fuori dalla vetrata, tra le fessure lasciate dalle tendine veneziane luride e polverose, ne sono una metafora): uno spazio angusto, dove il fuori si vede a brandelli.
Fuori è un posto dove tutto fa un po’ male, e imparare a convivere con questa essenza della realtà – dunque trasformarsi – è forse la cosa peggiore che ci capiti di dover fare.