«Perché non c’eri ieri sera?», mi dice seduto sulla poltrona azzurra, la flebo attaccata al braccio sinistro e la testa leggermente inclinata verso destra. La bocca si muove piano e si apre poco, a fatica. O forse sta risparmiando le forze.
Dai suoi occhi mi guardano quelli di sua madre, gli stessi.
(Negli ultimi mesi le sue pupille erano diventate di cenere, velate da uno strato spesso di liquido che si trasformava velocemente in lacrime. L’iride tremava, andava su e giù come a scandagliare tutto quello che vedeva; e invece quegl’occhi grigi si perdevano nella molteplicità, nell’enorme quantità di informazioni che la realtà le metteva a disposizione e che lei non era più capace di gestire.)
«No, c’ero. Forse non te lo ricordi», gli faccio sorridendo.
Lui mi crede facendosi carico del suo errato ricordo. Io lo so cosa gli passa per la testa in questo preciso istante: che è tutto così complicato eppure tutto così pieno di vita. Lo so e intervengo nei suoi pensieri, o almeno ci provo.
«Dovevamo passare ieri, abbiamo dovuto passare oggi, per poter arrivare a domani», gli dico alzando appena le spalle.
Il nostro silenzio non si mescola al rumore intorno.
Gli occhi di sua madre – dentro i suoi – ancora mi guardano. La bocca si dilata e prende la forma di un ghigno di soddisfazione. Di fortuna. Di chi ha abbassato le palpebre e le ha sapute riaprire. Di chi non si ricorda che te c’eri, ieri sera, eppure ti crede perché non può fare altrimenti.
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