La mia nuova casa
Finora, le case in cui ho abitato – tranne la casa in cui sono cresciuto –, hanno sempre avuto una data di scadenza che conoscevo già nel momento esatto in cui entravo.
Il primo mini-appartamento, condiviso con due amici universitari coi quali ci trasferimmo lì mentre iniziava a fare freddo, a luglio sarebbe stato occupato da altri studenti. Lo trovammo ad ottobre inoltrato, in grande ritardo ma alla fine fortunati: dalla mia camera si accedeva ad un piccolo balcone che dava sulle colline marchigiane e, giù in fondo, qualche volta si poteva intravedere anche il mare. Eravamo all’ultimo piano di una palazzina poco fuori dal centro e sopra di noi, prima del tetto, c’era una sorta di mansarda aperta con la lavatrice e un minuscolo spazio per stendere i panni. Se ci andavi la sera, quando pioveva, sembrava che l’acqua ti potesse cadere addosso da un momento all’altro. Allo stesso tempo eri certo che non sarebbe caduta perché lo stabile – ci aveva detto Primo, l’anziano proprietario dell’appartamento – era stato ristrutturato da poco e veniva continuamente monitorato. E noi a Primo credevamo perché era una brava persona, si vedeva. Aveva lavorato una vita alle Poste, o in banca, e sembrava l’archetipo perfetto del nonno che tiene i conti ed è felice di avere a che fare coi giovani.
L’anno seguente, con uno solo dei miei compagni di università – anche se sarebbe più corretto dire amico – ci spostammo in un altro appartamento. La data della laurea coincideva con il punto in cui, come un segmento sul piano cartesiano, il nostro tempo nella nuova casa terminava. Una casa grande e molto bella, proprio al centro della piccola città dove studiavamo. Anche questa all’ultimo piano, anche questa con dei locali mansardati. Se aprivo gli occhi, la notte, sopra al mio letto c’era un abbaino che sfondava il soffitto e portava le stelle dentro la mia camera. Era molto bella, ma aveva ben poco di mio. Non avendo uno spazio per appoggiare i nostri libri, con Andrea portammo un mobiletto di legno che avevamo posizionato in salone insieme ad un lungo tavolo dove entrambi studiavamo. Ma i libri spesso stavano per terra, sulle scale o appoggiati sui comodini che non erano comodini. L’unico spazio che aveva acquistato una fisionomia personale era il terrazzo; in realtà non un vero e proprio terrazzo ma uno spazio quadrato (due metri per due) ricavato fra i tetti, dove avevamo messo un tavolo anch’esso quadrato e andavamo a fare colazione quando possibile – anche se per arrivarci dovevi fare le scale, come per salire in camera.
In alcune case sono stato di passaggio, con altre persone, per qualche settimana. E qualche settimana non è mai un tempo che giustifica un qualsiasi intervento che trasformi quello spazio in qualcosa di più tuo. In quelle case impari a scoprire lo spazio per come è e sarà, sperimenti l’indifferenza e l’immobilità.
Sulla porta della mia nuova casa non ho invece intravisto una data di scadenza. La prima volta che ci sono entrato con la signora dell’agenzia immobiliare, ho subito notato l’enorme libreria sulla destra, in sala. I passi lenti con cui ho affrontato per la prima volta quella casa sembravano della mia misura, adeguati agli spazi di cui percepisco la necessità ora, in questo specifico momento della mia vita. Con una classica presentazione da agenzia immobiliare la signora ha cominciato a mostrarmi i locali. E io camminavo lentamente, mi muovevo come se avessi cura di non infrangere un silenzio.
Appena uscito ho iniziato a formulare una lista di cose importanti (pro e contro) che avevo visto.
Sì, è in centro città ed è molto vicina ai due luoghi dove lavoro. Bene.
Però sarà un problema gestire il parcheggio e la macchina nella zona a traffico limitato.
Sì, ha grandi finestre che illuminano il salone e la camera.
Però è a piano terra e si affaccia su una piazzetta dalla quale possono vedermi tutti.
Sì, ha una cucina nuova e in bagno c’è perfino una piccola finestrella.
Però non ha la lavastoviglie e il frigorifero è minuscolo.
Sì, però.
Dopo dieci giorni dall’appuntamento sono entrato nella nuova casa con la prima valigia e i primi scatoloni. L’ho pulita da cima a fondo e ho iniziato a sistemare i vestiti nel grande armadio della camera, poi alcuni libri sugli scaffali della sala. Poi le stoviglie, i viveri, i barattoli, il pianoforte elettrico e la chitarra, lo stendino per i panni e la televisione.
Qualche giorno fa, rientrato tardi per il pranzo e ancora seduto al tavolino della sala, guardavo fuori dalla finestra. Sul piccolo spiazzo che si vede ci sono sempre dei bambini che giocano con un pallone o gareggiano con delle bici minuscole. In questo autunno atipico – assolato e tiepido che sembra una primavera – c’è sempre un via vai di genitori che scendono in strada a parlare e a far prendere aria ai figli. Loro stavano lì, incuranti di me che, quindi, non mi sentivo per niente spiato. Giocavano facendo attenzione alle auto che passano lente e rispettose di quell’area giochi costituitasi in maniera autonoma.
Allora pensavo che io, da bambino, dopo pranzo, quando potevo, scendevo sempre giù in giardino. La casa dove sono cresciuto e dove i miei genitori ancora abitano, è un casolare in campagna con un grande prato davanti. Le finestre della cucina e della sala dànno sul cortile e mia madre poteva controllarmi da su, mentre sbrigava le sue faccende. Io giocavo col pallone facendo gol improbabili a squadre avversarie che non esistevano; gareggiavo con ciclisti che non c’erano e facevo di tutto per costruire un mondo sul mio giardino. Tutti i pomeriggi costruivo un sistema che poi disfacevo, riponevo da una parte e tornavo ad utilizzare la volta successiva.
Immaginare e vivere vite che non sono propriamente la mia è una costante nella mia vita, mi dicevo l’altro giorno, appena dopo pranzo seduto al tavolo di cucina della mia nuova casa. Poi una delle mamme che erano lì in piazzetta ha urlato a suo figlio “massimo un quarto d’ora, perché poi dobbiamo andare via”.
Ma andare via da cosa?
Il giardino della casa dove sono cresciuto ora è diverso, anche se ha sempre la stessa tonalità di verde. Qualcuno è andato via e qualcuno se ne andrà in un’altra casa, prima o poi. È rimasta l’immaginazione, però, l’idea che i mondi si possano inventare, costruire e infine distruggere. E non è detto che siano meno veri di quella che siamo soliti chiamare realtà.
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