L’altra notte ho sognato che avevo scritto un romanzo di 1789 pagine. Lo aveva edito una grande casa editrice (non ricordo quale, così come non mi ricordo minimamente di cosa potesse parlare quel malloppo), ma le vendite andavano malissimo. Non era però quello a turbarmi nel sogno, piuttosto ero immalinconito dal fatto che nessuno lo leggesse, nemmeno mia madre o il mio migliore amico. E io mi dicevo che vabbè le vendite sono strane e forse uno è anche spaventato da un libro di 1789 pagine, ma almeno mamma, perché si rifiuta di leggerlo? Andrea, Mauro, voi siete lettori, perché non lo leggete? Ve l’ho pure regalato.
Il sogno nella mia memoria finisce così, si chiude appollaiato su questa grande delusione lunga 1789 pagine che non viene letta da nessuno. Non ricordo molto altro, se non qualcosa che — con molta probabilità — il mio cervello ha creato appositamente per dare una parvenza di senso a questa stramba storia onirica.
Tuttavia, durante il giorno e mentre ero intento in altre cose, ho provato a ricostruire i fili interni al sogno da cui mi ero svegliato al mattino. E più che rintracciare una via, o ricordarmi perché né mia madre né i miei amici leggessero lo sconosciuto volume, mi sono chiesto quando tempo potrei impiegare per scrivere un romanzo di 1789. Ciò a cui sono arrivato è che io (oltre alle capacità) non ho il tempo di scrivere un romanzo così lungo, di affogarmi dentro i rivoli di una storia che si sviluppa talmente tanto da diventare illeggibile persino per la madre e i migliori amici (lettori) dello scrittore. Io che con la scrittura ho a che fare quotidianamente, non saprei dove mettermi le mani: come si progetta una storia così lunga? Quante storie ci sono dentro una storia così grande? Quante cose devi tenere a mente affinché tutto sia coerente e letterariamente credibile?
Erano un po’ le domande che mi facevo dopo ogni sessione di lettura di Infinite Jest e sono, credo, le stesse domande che mi farò un giorno quando deciderò di leggere Alla ricerca del tempo perduto. (Alla ricerca del tempo perduto che, informazione forse utile agli psicoanalisti “all’ascolto”, mi fu regalato — in una bell’edizione in sette volumi — da Andrea, uno dei due miei amici che nel sogno si rifiutano costantemente di leggere il mio romanzo di 1789 pagine.)
Una plausibile via d’uscita da queste domande si traduce in un atto di realismo. Ovvero: non è che ogni volta che ti metti a scrivere ti poni come obbiettivo quello di produrre un romanzo di 1789 pagine. Le cose ti crescono sotto mano, oppure vanno a chiudersi molto prima di quanto pensassi all’inizio del processo.
Dunque, siccome nel sogno non si vedeva, o non me lo ricordo, ho immaginato il tipo di vita svolto per scrivere un romanzo così lungo. Io che quando per lavoro devo scrivere un copy per un post di un cliente ne faccio diverse versioni; quelli che decreto i migliori due li trascrivo in bella sul quaderno di lavoro (uno nella metà destra, l’altro nella metà sinistra della pagina) e li rileggo molte volte fino a dovermi decidere poiché è arrivato il momento di scriverlo nel file condiviso così che anche gli altri collaboratori possano lavorare. Io che mi scrivo qualsiasi cosa sull’agenda, calendarizzo tutti gli impegni e gli orari, e che però faccio a cazzotti con gli imprevisti (le cose ti crescono tra le mani…), con il mondo che se ne stra-frega dei miei organizzatissimi piani. Come stasera che, tornato alle sette da lavoro mi sono detto fino alle otto leggo sul divano, ma poi mi ha chiamato un amico e la telefonata — gradita e necessaria come lo sono le cose distensive — si è prolungata per oltre mezz’ora. Il mio piano è parzialmente saltato e ora ho deciso di scrivere questa cosa e ci passerò sopra la serata, se bene mi conosco. Io che al mattino ripasso le cose che devo fare durante la giornata e mi metto dei termini intermedi, dei target da raggiungere. Decido in anticipo quando devo andare via da un luogo per raggiungerne un altro e stimo il tempo necessario per compiere alcune azioni, incastrandole l’una con l’altra come un organismo che, puntualmente, viene minato e ferito dall’esterno. Io che immagino così tante volte, nel frattempo che sto facendo qualcosa che in quel preciso istante considero una limitazione, i momenti che vorrei vivere più a lungo: mi immagino seduto al pianoforte a studiare mentre sto lavorando, o mi immagino seduto in poltrona con una luce sul libro e John Mayer in sottofondo mentre sto guidando. Io che leggo a voce alta, spesso mentre cammino per casa, le cose che scrivo e, una volta fatta una modifica, rileggo quella frase, poi continuo. Io che mi distraggo così facilmente e non perché non sia capace di rimanere concentrato, ma perché forse mi sono imposto troppe cose da fare in un tempo ristretto e il mio cervello si ribella a degli schemi folli. Io che sono così bravo a rimandare le cose che non ho voglia di fare e che però, poi, diventando drammaticamente impellenti, mi richiedono il quadruplo del tempo e dell’energia per sbrigarle. Io, grande barattatore con me stesso, soggetto e al contempo oggetto di un dialogo mai interrotto tra il dentro e il fuori, fra l’interiorità e l’apparenza, spesso così difficile da sembrarmi autolesionismo. Io che se “buco” qualcosa, se arrivo un po’ lungo rispetto ai tempi prestabiliti, passo più tempo a riflettere sul perché è successo che a rimediare al ritardo. Io che non mi perdono mai.
Io, in quel sogno, come avrò fatto a scrivere un romanzo di 1789 pagine? Secondo me è impossibile, e forse anche mia madre e i miei amici lo credevano impossibile.
Ecco perché si rifiutavano di leggerlo nel sogno: erano convinti che non fosse il mio e avevano ragione.
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