Ieri sera ho visto le prime due puntate di The New Pope, la serie tv creata e diretta da Paolo Sorrentino, seguito di The Young Pope (2016). L’ho vista sdraiato sul divano, con il portatile appoggiato sulle gambe e aperto su SkyGo. In casa ero solo, stanco e avevo mangiato pochissimo a cena. Mi sembrava di essere tornato all’università, quando sdraiato sul divano con il vecchio portatile guardavo le prime serie tv, o le partite di Serie A su qualche sito in streaming con telecronaca in arabo (in portoghese, se mi andava bene).
I primi due episodi del sequel di The Young Pope mi sono sembrati molto più narrativi, non per questo meno evocativi, ma certamente più inclini a raccontare espressamente lo svolgersi della storia. In mezzo a una miriade di belle inquadrature e scelte ben precise, c’è stata una scena, nel secondo episodio, che mi ha bloccato. Una scena che non passa inosservata perché dice molto sull’arte di raccontare, sulla necessità di farlo. Parla, insomma, a tutti coloro (me compreso) che le storie le masticano quotidianamente, le guardano da fuori e poi da dentro, e poi da fuori ancora, fino a viverle addosso anche se non sono le loro.
Ma facciamo un passo indietro. Il punto di partenza della seconda stagione è questo:
[SPOILER, pochi, per chi non ha visto la prima stagione]
Lenny Belardo (Pio XIII, interpretato da un bellissimo Jude Law) ha avuto un attacco di cuore. Sono passati 9 mesi e il suo stato di salute è un coma irreversibile. La Chiesa si sblocca dall’impasse e convoca un nuovo Conclave per eleggere the new Pope, ma i conflitti interni agli schieramenti cardinaleschi, conducono a un esito inaspettato. Pertanto occorre trovare un accordo all’interno della fazione che può avere la maggioranza assoluta, e il cardinale Angelo Voiello, il Segretario di Stato Vaticano, ovvero Silvio Orlando, si trova costretto a candidare il cardinale John Brannox, cioè John Malkovich. Quest’ultimo è rintanato nell’enorme tenuta di campagna vicino a Londra insieme ai suoi genitori malati e anziani. Malkovich si presenta sullo schermo con abiti superbi, pieni di vanità e gli occhi contornati da una stupefacente matita nera.
Nella sua tenuta, per convincerlo a diventare il “loro” candidato, sono arrivati Voiello, la responsabile marketing e comunicazione del Vaticano, Sofia Dubois (una stupenda Cécile De France che mi ricorda Robin Wright nel ruolo di Claire Underwood in House of Cards, sia nella postura, per il taglio di capelli e il ruolo strategico), il cardinale Gutierrez (cioè Javier Cámara coi suoi occhi piccoli che sembrano sempre umidi di lacrime), il cardinale Assente (ovvero l’attore italiano Maurizio Lombardi) e il cardinale Aguirre (interpretato da Ramon Garcìa). La truppa è obbligata a passare la notte nelle stanze predisposte da Brannox, perché quest’ultimo non accoglie gli ospiti arrivati tardi, di notte dopo le 22:30.
Il cardinale Gutierrez, un personaggio interessantissimo, pieno di segreti e pulsioni contrastanti, e il cardinale Assente, dormono in due stanze attigue collegate da una porta interna. La loro omosessualità è chiara fin dalla prima stagione. Assente è seduto sul suo letto, le abat-jour accese e un silenzio che significa che qualcosa sta per succedere. Quasi con uno scatto di reni si alza dal letto e con un unico movimento di macchina Sorrentino lo segue ai piedi del letto. Assente cammina, passa dietro un separè modulare e mentre non lo vediamo si toglie la camicia da notte, arriva davanti al camino spento e si vaporizza addosso due spruzzate di profumo, poi prosegue e con un’incertezza minima rispetto al gesto enorme che sta compiendo, bussa alla porta di Gutierrez. Quest’ultimo apre la porta, quasi fosse lì ad attenderlo e non sorride, rimane affascinato dal corpo prestante di Assente e lo guarda, poi alza lo sguardo e incrocia i suoi occhi. A quel punto Assente gli dice: «mi sono sentito solo, all’improvviso», sorride imbarazzato e Gutierrez attende, poi gli consegna una risposta devastante come tutte le reali e importanti prese di coscienza:«se io ti facessi entrare, ci sentiremmo ancora più soli, dopo». La porta si chiude e la notte avvolge queste due solitudini rimaste sulla soglia del piacere, che non si sono spinte a correre il rischio di diventare dolore.
Questa non è solo una scena tecnicamente ineccepibile, piuttosto è concentrato puro della dolcissima malinconia che usualmente si ritrova nelle opere di Sorrentino il quale, è vero, sorrentineggia il più delle volte; ma il suo osservare si concentra spesso su tutto ciò che sta in piedi con grande fatica: ovvero tutto quello che è davvero interessante da raccontare.