Ho compiuto trent’anni durante l’isolamento collettivo di questa primavera. Il giorno del mio compleanno i miei genitori mi hanno chiamato su Skype ed un mio amico mi ha fatto recapitare dal ristorante vicino casa, un vassoio di tiramisù. Le ore di luce, a fine aprile, si allungavano visibilmente giorno dopo giorno; il cappio al collo che ci aveva serrato in casa continuava a intimorirci, ma sembrava sul punto di allentarsi.

Pochi giorni dopo ho potuto prendere la mia macchina e percorrere i quindici chilometri che mi dividono da casa dei miei genitori, dove abita anche mia sorella. Abbiamo pranzato fuori, sotto un’alta quercia che produce un’ombra fitta e rigenerante. A piccoli passi, come fossimo tutti sottoposti a una cura riabilitativa dopo un incidente, abbiamo ripreso a guadagnare campo accordandoci alla luce che proseguiva a rosicchiare minuti alla notte.

L’intenzione che ci muoveva, a volte solleticandoci segretamente, era «tornare alla normalità». Questo movimento all’indietro sembrava un’esigenza anche per il futuro, un tentativo – fallimentare fin dai suoi presupposti – di cancellare, omettere e superare definitivamente, questa assurda e spaventosa circostanza nella quale ci siamo trovati a vivere nostro malgrado.

La necessità di liberarsi dalla paura, al fine di vivere una vita felice e stabile, è uno degli insegnamenti su cui più volte Seneca torna nelle Lettere a Lucilio. Perché la paura, dice il filosofo latino, risiede sull’altra faccia della medaglia occupata dalla speranza. Le Lettere sono brevi e, durante la quarantena, prima di provare ad addormentarmi, ne ho rilette molte, aprendo il libro a caso. Sperare in un futuro favorevole significa temere un futuro sfavorevole: ogni volta che si ha paura, in realtà si sta sperando, e viceversa.

Mentre cammino per raggiungere i pochi luoghi che frequento (lavoro, supermercato, farmacia…), però, non mi sembra di percepire alcuna speranza negli occhi spaventati degli altri. Poi, compiendo una mezza capriola, provo a guardarmi da fuori e forse nemmeno i miei occhi trasmettono una qualche luce. Come se la paura si fosse fagocitata tutta la speranza che di solito si porta appresso, scegliendo come compagna la desolazione, la rassegnazione.

La vita che stiamo conducendo, per quanto ricca di impulsi dovuti dagli infiniti dispositivi tecnologici che cercano di tenerci svegli, è per lo più anestetizzata. Mai come ora la vita appare ritualizzata nei suoi gesti e nelle sue dinamiche più elementari. Tutto quello che la tiene accesa oltre la fiammella pilota, è solo una faticosa spinta da dentro che ognuno cerca di coltivare come può.

Negli ultimi giorni, in lunghe ore di silenzio all’aperto, ho provato a catalogare tutte le riflessioni che nascono dalla diffusa convinzione che il bene risieda nel «tornare alla normalità». Una lista di libere associazioni certamente incompleta, ma di sicuro significativa per afferrare possibili sfumature di questa esigenza così naturale da apparire per forza di cose condivisibile. In realtà, ho concluso, la mia ricerca aveva un altro obiettivo. Era un tentativo di smontare quell’idea; volevo provare a sperare meno in un ritorno magico al passato, in definitiva: cercare di avere meno paura.

Lo so, non è la paura dell’ignoto che mi cinge il braccio senza lasciarmi mai troppo libero (la predestinazione, intrinseca o estrinseca, quella di un Destino fatale o di un Dio, non è mai rientrata nel mio vocabolario di non credente). È piuttosto l’idea che certe cose siano definitivamente cambiate, senza possibilità di riprogrammarle in seguito, che mi allarma. Non so di preciso cosa, ma certi nostri atteggiamenti, la fiducia in quello che proviamo a produrre e a mettere in campo, molte delle dinamiche sociali che ci tenevano legati agli altri, rischiano di mutare in modo irreversibile. Lo hanno già fatto, per forza di cose, ma quando il corso del fiume devia, l’acqua non sparisce, si sposta, attraversa e allaga un altro appezzamento modificando la morfologia di un territorio.

Di fronte a questa situazione, qual è l’atteggiamento più razionale che un uomo può produrre? È forse pensare che il mondo, ciò che più intimamente lo costituisce – ovvero le relazioni che sussistono al suo interno –, debba ripartire da un presupposto diverso? Sì, forse è questo lo sforzo che dovremo compiere: non tanto sperare di «tornare alla normalità», quanto piuttosto riprogrammare le priorità “a partire” da un modo diverso di intendere la vita. Si tratta di attivare quello strano e disarmante processo che abbiamo visto in atto nelle nostre vite in conseguenza di una morte. Dopo la scomparsa di qualcuno, l’unico modo per non farsi divorare dalla malinconia è proseguire i propri sforzi coscienti del posto vuoto a tavola. Come tradurre questa consapevolezza in azioni è la sfida che ci attende. Non c’è nulla da dimenticare, anzi, ma forse quasi tutto va ricompreso e riparato con una cura artigianale.

Seduto su una panchina al sole tiepido di fine ottobre, mentre ragionavo su queste cose, ad un certo punto mi è sembrato tutto chiaro. Finalmente il timore e la speranza potevano essere definiti oggetti del mio passato emotivo. Tanti anni dopo aver studiato a fondo Seneca, mi pareva di aver raggiunto il seme fecondo di quelle lettere. Allora ho camminato un po’, prima di rientrare al lavoro. Ho pensato all’eco prodotta dalle scomparse più significative della mia vita che, anche a distanza di anni, continua a risuonarmi tra il petto e la testa. I posti vuoti a tavola rimarranno tali, le case e le strade sono cambiate, le ore di luce stanno arretrando davanti all’avanzata della notte, ed io vorrei soltanto avere meno paura.

 

Photo by Marco Biondi on Unsplash
Saverio Mariani

Author Saverio Mariani

Laureato in Filosofia ha svolto ricerca a Macerata, Napoli e Roma, salvo tornare sempre nella sua Umbria dove c'è il silenzio giusto per suonare le sue chitarre. Ha scritto saggi per riviste scientifiche, un libro su Bergson (ETS, Pisa 2018), alcuni racconti usciti su Minima&Moralia e varie altre cose. Sua madre dice che compra troppi libri, per l'Istat è un lettore forte.

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