Qualche tempo fa, degli amici musicisti (i quali hanno da poco pubblicato un signor disco, che dovete andarvi ad ascoltare), dopo un concerto hanno scritto sulla loro pagina facebook che è molto facile trovare, ai concerti – soprattutto nei locali dove ci sono molti ggiovani –, quelli che storcono il naso davanti a canzoni intime e sussurrate. Dirò di più, è sempre più facile trovare ascoltatori che storcono il naso, e girano i tacchi, davanti ad un gruppo che suona brani suoi, propone un’idea, bella o brutta che sia.
Il messaggio pubblico degli amici citati mi ha fatto riflettere. Ho constatato molte volte la medesima cosa suonando le mie cose in pubblico. Si tratta, inoltre, di un atteggiamento che, per lo più, precede il giudizio sul fatto che ciò che si sta ascoltando sia bello o brutto: è un atteggiamento a priori.
Loro scrivono che i ggiovani vogliono solo divertirsi e far casino, perché schifati dalla vita. Ma non basta, secondo me.
Siamo sempre di più di fronte all’incapacità di fermarci. Non si tratta (solo) di schifo o di repulsione per ciò che viviamo quotidianamente – che, poi, potrebbe anche minimamente cambiare grazie al nostro fare quotidiano. Si tratta piuttosto di uno scollamento fra ciò che chiamiamo soddisfazione e ciò che realmente sentiamo essere. La frenesia, il continuo andare, il volume alto, la velocità spropositata dei nostri atti, la cattiveria con cui chiediamo che le cose accadano per come vogliamo, l’incessante procedere insieme a masse indefinite, non ci hanno dato solo la libertà di fare, più o meno, ciò che vogliamo. Tutto ciò ci ha condotti all’interno di un vortice secco e polveroso dal quale riemergere non è facile.
Da questo stato di cose molti di noi, e spesso anche noi stessi, escono con indosso una bramosia che valuta come positiva solo la quantità, mai la qualità. Di questa bramosia pagano i conti infine le persone, i rapporti con le donne e gli uomini che vivono questa vita finita accanto a noi; l’arte in generale, la musica, il cinema, il teatro, i musei… Come famelici assennati fagocitiamo tutto, senza alcun filtro, e le nostre papille gustative vogliono solo ciò che è già conosciuto e, al massimo, ciò che ci genera uno shock (spesso poi non volendolo più nemmeno vedere). La scoperta del nuovo sembra preclusa a pochi fannulloni che hanno tempo per perdere tempo.
Perché questo vortice non ci conduca ancora più giù, dove l’aria è irrespirabile, invece, è importante sedersi, avere tempo da spendere di fronte all’ignoto, a ciò che non è mai passato davanti ai nostri occhi, a ciò che non è stato recensito, a quelle cose che sembrano al di fuori di questo mondo. Forse sono le uniche che possono ricondurci “all’altro mondo”. Quello che abbiamo perso e nel quale forse si può essere non solo soddisfatti ma felici.