L’idea secondo la quale un film, un libro, una canzone, qualsiasi forma espressiva, abbia uno ed un unico senso, messaggio o scopo, che l’autore cela dietro il suo lavoro, e che noi dobbiamo ricavare e scoprire, è un’idea inguaribilmente pregiudizievole. I film, i libri, le poesie, le canzoni, ogni forma d’arte è qualcosa che va fatto nostro. L’arte non si conforma con la Verità, lei sta lì a ricordarci che dobbiamo emozionarci.
Se ciò è vero, e se – soprattutto – ciò ci permette di vedere nell’arte molte più cose che nel bel mezzo della ricerca del senso unico ci perdiamo inevitabilmente, allora Youth, il nuovo lavoro di Paolo Sorrentino, non è solo un film sulla vecchiaia e sulla giovinezza nelle sue molteplici sfaccettature, così come non è solamente un film malinconico che riflette sulla vita e sul necessario scorrere del tempo.
Youth è il classico film di Sorrentino, senza nessuna storia o vicenda esteriore, una serie infinita di eccellenti quadri che si allargano lentamente, scoperchiando così immagini stupende e frasi che, fra il serio e il faceto, sembrano sempre sentenze definitive. Quest’ultime, a mio avviso, a differenza di ciò che scrive Goffredo Fofi su Internazionale, anche con un certo livore che difficilmente si comprende, non sono frasi nel genere Baci Perugina, ma sono il tentativo di mostrare la possibilità che gli uomini, intenti a dire massime capitali, a volte dicono delle stronzate e delle banalità.
Un pazzesco Michael Cain interpreta Fred Ballinger, un’ottantacinquenne ex direttore d’orchestra, apatico fin dalla prima scena, in un resort sulle montagne svizzere che rifiuta il goloso invito di un emissario della Regina Elisabetta d’Inghileterra, a dirigere un concerto in onore del Principe. Nella stessa struttura vi è un altro anziano, un suo carissimo amico, il regista Mick Boyle (ovvero Harvey Keitel), alle prese con la sceneggiatura del suo ultimo film, dal titolo tanto solenne quanto stupido (per tornare alla duplicità delle frasi, di cui sopra).
I quadri filmici si aprono entro questo orizzonte, tra le montagne e i prati in fiore, le piscine, le saune della spa e gli spettacolini serali per gli ospiti. Ma è inutile raccontare gli altri personaggi che a mano a mano entrano nelle scene e che dànno un po’, non troppo, non è una commedia, al rapporto fra Fred e Mick. Vanno piuttosto fissate nella memoria, al fine di goderne la bellezza e la sensibilità, alcune scene del film, le quali aprono sempre una voragine in uno dei due personaggi (più in Fred, che in Mick, a dir la verità) e nello spettatore.
Il sorprendente monologo, quasi due minuti, della figlia di Fred (una bellissima Rachel Weisz), con un’unica inquadratura stretta sul volto, mentre i due sono sdraiati sotto una patina di fanghi rigeneranti. Oppure le carrellate sulle saune e i bagni turchi, dove sono ammassati anziani signori e donne cadenti, immobili, quasi come statue elleniche, illuminate magistralmente sempre da dietro, come a formare una sagoma.
Diego Armando Maradona, molto più grasso di come già è, con la sua donna che lo assiste sempre con bombole d’ossigeno su un carrellino, quasi come il trolley di Ceyenne in This must be the place. Un Maradona che è protagonista di uno dei migliori dialoghi del film, quando – dentro la piscina coperta della struttura – si avvicina a Fred che sta parlando con un bambino, violinista, il quale ringrazia l’anziano direttore d’orchestra per i consigli che gli ha impartito. Fred fa notare che i problemi che vanno corretti nella sua esecuzione sono dovuti al fatto che egli sia mancino. Maradona, felice di poter intervenire e di farsi notare, afferma «anche io sono mancino». La risposta è un colpo di genio: «tutto il mondo sa che lei è mancino».
Vi è la capacità di Sorrentino di rendere il film lento al punto giusto, ogni movimento non è lasciato al caso, le camminate in mezzo ai prati sono delicate, soavi, con un ritmo che segue quello interiore di Fred Ballinger. Anzi, gli unici momenti in cui il ritmo si alza vertiginosamente, con un volume spropositato della musica, sono solo una trovata registica che permette a Sorrentino di mostrare la bellezza e la straordinarietà di quella cadenza temporale di cui un film del genere ha bisogno.
In mezzo ci sono anche micro eventi che segnano il cammino della, seppur minima, narrazione. Ma essi sono complementari alla descrizione che Sorrentino vuole fare dell’uomo, della sua diversità e della sua intransigenza verso se stesso. L’opera non ci vuole dire nulla; non vi è alcun messaggio in codice, come ha anche scritto Christian Raimo (affetto a mio avviso da un sentimento di odio/amore nei confronti di Sorrentino). Raimo ha anche fatto notare, giustamente, che il finale di Youth è troppe volte rimandato, alla ricerca di un’enfasi sempre maggiore che però, alla fine, depotenzia immagini sublimi e vertiginose.
Vedendo Youth possiamo riflettere su molte cose, e anche provare a scovare il senso ad ogni minimo particolare del film. Ma Youth, come molte altre opere di Sorrentino, in primo luogo ci ricordano che siamo uomini, fatti di emozioni.