La maniglia della finestra della sala si apre, emettendo un cricchio sottile che si propaga attraverso il legno dell’imposta. Sono in piedi, davanti a uno spazio comune ma racchiuso, ora più vivido e vicino; allora apro anche l’altra metà della finestra, con la mano sinistra, lentamente.
Sull’esterno del vetro sinistro, che adesso dimora dentro le mura, si riflette una luce dorata che proviene dal sole non appena sorto lì, ad est, poco più avanti a destra rispetto al mio sguardo immobile. I primi raggi sembrano svegliare gli occhi di questa piazzetta rotonda a cui la luce del sole arriva ad intermittenza. L’aria è fresca e una zaffata dall’odore di pioggia (caduta copiosa nella notte) sovrasta il profumo che evapora dalla tazza che tengo stretta con la mano destra. Mi accorgo di respirare, così a fondo da non sentire i suoi passi che si avvicinano.
Scritto per un’esercitazione sulla consistenza dei rapporti e delle storie, in occasione di un seminario con Giorgio Vasta. Se questa scena avesse una colonna sonora, sarebbe senza dubbio questa.