Il più grande pericolo nel quale Marco Bellocchio è incorso, girando un film a partire e liberamente tratto dal bestseller di Massimo Gramellini Fai bei sogni, era quello di fare un film melenso e da iperglicemia.
La storia è chiaramente toccante (la perdita della madre all’età di 9 anni da parte di Gramellini stesso, al quale viene fatto credere sempre che la mamma sia morta per un infarto fulminante). Ed inoltre, è molto vicina alle tematiche care a Bellocchio, come i problemi famigliari, la mancanza e l’assenza, lo spaesamento.
Tuttavia, come Bellocchio in ogni presentazione ha ribadito e come è ben visibile sulla locandina, il film è liberamente tratto dal romanzo-autobiografia. Grazie alla sceneggiatura di Edoardo Albinati (ultimo premio Strega con La scuola cattolica) e Valia Santella, Bellocchio ha tratto un buon film da un libro mediocre.
Tutta la prima parte è raccontata dal punto di vista di Massimo da bambino, interpretato in modo convincente da Nicolò Cabras (10 anni, prima esperienza cinematografica). Lì la macchina da presa è sempre bassa, all’altezza del bambino. Tutto è guardato dal basso verso l’alto, tutto impedisce la vista a Massimo che si ritrova – come nel momento del funerale della madre – a dover guardare le gambe degli uomini e delle donne che piangono e gli passano davanti, quasi schiacciandolo. Le lacrime non vengono mai inquadrate, è solo l’incapacità di vedere oltre del Massimo bambino, che Bellocchio ci porta sullo schermo.
Guido Caprino, che interpreta il burbero padre di Massimo, non può andare contro la sua natura e quindi fa quel che può: tenta di addolcire la pillola al figlio ma ha un taglio evidente sull’anima che, nonostante sia costantemente tamponato, getta ancora sangue.
Massimo cresce, ed entra in scena Valerio Mastandrea il quale ha dichiarato (secondo me giustamente) di non aver voluto leggere il libro prima di girare il film, per evitare di appiattirsi sul personaggio scritto da Gramellini.
Per fortuna Mastandrea, sebbene non perfetto, non si schiaccia su quello che le pagine di Gramellini avevano descritto. Introverso ma scaltro, capace di guardarsi dentro molto in profondità eppure ingenuo, è il Massimo del film, nella Roma e poi Torino degli anni ’90. Come quando incontra un grande industriale che gli propone di scrivere la sua biografia, ma Tangentopoli – con tutto il suo carrozzone mediatico appresso – invade le vite di tutti. L’industriale, interpretato da un gigantesco Fabrizio Gifuni, che muove lentamente il suo corpo, a mostrarci l’indifferenza, anche quando ripetutamente la finanza suona al campanello di casa, gli impartisce una lezione di vita. Ha potuto vincere, perché ha rischiato di perdere. Tutti hanno perso, almeno una volta.
Ci sono molte altre cose nel film, importanti. Gli attacchi di panico, l’incontro di Massimo con la dottoressa all’ospedale (interpretata da Bérénice Bejo), il tentativo di traslocare tutto dal vecchio appartamento dei genitori a Torino, la chiacchierata di Massimo adolescente con Roberto Herlitzka (l’Aldo Moro in Buongiorno, notte), l’articolo su La Stampa che dà definitiva visibilità al Massimo giornalista, la festa nella quale Bellocchio riesce a far ballare Mastandrea e molte altre.
Tutte sono attraversate da una fotografia eccellente, di Daniele Ciprì, che ci fa muovere esattamente fra i vari strati temporali tra i quali si svolge la storia. L’oscurità della vita di Massimo da bambino e la luminosità triste del Massimo adulto e che si fa una carriera.
Il finale (che nel libro s’intuisce dopo nemmeno 6 pagine) è ben giocato da Bellocchio, attraverso un incontro, in piena notte, fra Massimo e la storica amica di sua madre, interpretata da una più che convincente Arianna Scommegna (che quest’anno ho avuto modo di apprezzare dal vivo in Utoya, insieme a Mattia Fabris al Festival dei 2Mondi di Spoleto). Seduti al tavolo di quell’appartamento polveroso che dà sul comunale di Torino, i due si dicono la verità sulla morte della madre. Ma anche quella verità, più che il dolore generato dal perché non gli sia stata raccontata prima la storia reale, non riesce ad aprire le porte a ciò che i più chiamano serenità. Massimo rimane ingabbiato dentro la sua storia, dentro la sua vita, e quasi come Aldo Moro alla fine di Buongiorno, notte, esce dalla casa che non è più sua, da quella prigione nella quale si è forgiata la sua verità, e cammina. Per andare sempre lì, dov’è stato.