Il 31 luglio 1954 – esattamente settant’anni fa – due uomini, Lino Lacedelli e Achille Compagnoni, appoggiavano i loro piedi per la prima volta sulla vetta del K2. Quella spedizione (enorme, ingombrante, contestata, patriottica oltre ogni limite) è il cuore del mio libro uscito poche settimane fa. Eppure in quelle pagine, pur ripercorrendo la spedizione italiana del 1954 e descrivendone le sue caratteristiche, ho provato a ragionare anche su cosa sia l’alpinismo d’alta quota, su quali siano i problemi ambientali ed etici legati a tali attività, a raccontare storie “minori” all’interno della storia più grande. Il libro, uscito per Edizioni Res Gestae, si può acquistare in tutte le librerie e gli store online. Di seguito una parte del capitolo in cui racconto l’arrivo di Lacedelli e Compagnoni in vetta. Buona lettura!
[…] La tendina a 8050 metri di altezza era troppo piccola per ospitarli entrambi, perciò nel corso della notte – a turno – i due si accovacciarono coi piedi di fuori. Al mattino il respiro si era fatto più compassato e lento, ma non per questo semplice da accettare; nelle sessioni di allenamento e preparazione alla spedizione, svoltesi a Milano e Torino, gli specialisti avevano ribadito più volte il fatto che oltre gli ottomila metri l’ossigeno supplementare era semplicemente necessario. Vivere più ore a quelle quote, infatti, era creduto impossibile, così come era impossibile per i medici immaginare che un uomo oltre gli ottomila metri potesse svolgere uno sforzo fisico come scalare una parete di ghiaccio. I due alpinisti di vetta, in ossequio a quanto consigliatogli dai medici, si ripetevano che già aver trascorso la notte a una quota superiore agli ottomila metri era stato un rischio, ora serviva l’ossigeno. Il muro di rocce che avevano superato il pomeriggio precedente, al mattino si presentava come un burrone da affrontare in disarrampicata: poco prima di iniziare le manovre Lacedelli e Compagnoni videro un uomo sotto al muro che si allontanava, camminava meccanico scendendo il pendio. Le sue articolazioni si muovevano a scatti. Urlarono qualcosa, il silenzio fu rotto dalla loro voce affaticata, l’altro nemmeno si voltò, sulla mano destra teneva stretta la sua piccozza di ferro e legno e alzandola verso l’alto fece segno di averli sentiti.
Le roccette furono un ostacolo non da poco, ma la temperatura notturna aveva irrobustito il ghiaccio rendendole meno marce, almeno. Una volta arrivati sotto il muro si accorsero dei basti con l’ossigeno e di un piccolo scalino nel ghiaccio, il giaciglio notturno di quel ragazzo che un’ora prima li aveva salutati alzando la piccozza. Con il peso sulle spalle si sentirono sprofondare, una volta aperto il respiratore però il contenuto delle bombole tedesche di marca Dräger iniziò a garantire al sangue un’ossigenazione sensazionale. Erano giorni che i due non percepivano di respirare così a fondo, di collaborare così attivamente ai processi interni che – semplicemente – li tenevano in vita. I piedi dunque parvero risollevarsi, i movimenti erano pur sempre lenti ma meno faticosi: l’enorme peso sulla schiena venne compensato dalla forza ritrovata grazie all’ossigeno. Così i due superarono il canalone di neve aggirandolo ancora una volta a sinistra, evitando in questo modo di essere costantemente sotto tiro rispetto all’enorme tetto di neve che si manifestava più sopra, e arrampicando sulle rocce senza ramponi, come se si fosse in dolomite. Una volta usciti dal muro i due alpinisti, più o meno a metà mattinata, ricalzarono non senza fatica i ramponi, le cui stringhe si erano nel frattempo indurite a causa del freddo. Estratta la corda dallo zaino Lacedelli e Compagnoni si legarono per procedere in conserva tra i pinnacoli di neve alta fino alla Spalla, infine alla zona altissima del K2 che nessun uomo aveva mai visto da quella prospettiva. Con fatica raggiunsero una cengia nevosa apparentemente stabile sulla quale si fermarono per riposare senza sprofondare nella neve: guardando verso monte si vedeva l’ultimo tratto che avrebbero dovuto affrontare, una dorsale nevosa quasi verticale che però li avrebbe portarti direttamente all’anticima e poi alla vetta; guardando verso valle si vedeva un abisso lungo più di tremila metri che conduceva dritto al campo base. Compagnoni viene stregato da quella visione, una sublime incertezza lo immobilizza: non è solo paura, piuttosto è la conferma che anche per lui esiste un limite oltre il quale non si era mai spinto. Sopra quella cengia il confine aveva grattato la certezza, scalfito un po’ la dura scorza montanara di Achille Compagnoni da Valfurva che si era sentito come il George Gray di Edgar Lee Master la cui vita è stata «una barca che anela al mare eppure lo teme».
Quando i due decidono di ripartire sono all’incirca le 16:00, finora hanno percorso circa 500 metri di dislivello positivo tutti assistiti dall’ossigeno supplementare che hanno recuperato e aperto intorno alle 9:00 del mattino. Si trovano ormai a quota 8400 metri circa, manca davvero l’ultimo sforzo: l’ultima porzione di sforzo di questo infinito ultimo sforzo. In questo momento la relazione ufficiale sostiene che l’ossigeno nelle bombole terminò. Non sapremo mai se l’ossigeno terminò davvero – anche se la Relazione dei Tre Saggi, ristabilendo una verità storico-critica anche su questo specifico fatto, conclude che se l’ossigeno è terminato, al massimo lo ha fatto molto più su a circa 50 metri dalla vetta, più o meno all’altezza dell’anticima – ma possiamo solo riscontrare almeno due aspetti che mettono in dubbio la versione degli alpinisti di vetta: 1) dalle 9:00 alle 16:00 (orari confermati da entrambi) i due avrebbero percorso circa 500 metri di dislivello grazie all’ausilio dell’ossigeno, dalle 16:00 alle 18:00 ne avrebbero compiuti quasi la metà (200 metri) per raggiungere la vetta, senza l’ausilio dell’ossigeno – la sproporzione appare evidente; 2) le foto scattate sulla cima e i brevi video girati li ritraggono con la maschera dell’ossigeno ancora indossata, con i basti o sulle spalle o per terra di fianco ai loro piedi: se l’ossigeno fosse davvero finito non si capisce come mai i due non avrebbero dovuto abbandonare l’inutile peso durante l’ultimo tratto di salita, detto che nessun alpinista coinvolto in quella spedizione si sia mai posto il problema dei rifiuti lasciati sulla montagna.
Lacedelli e Compagnoni comunque ripartono, intanto il sole si sta appoggiando nuovamente all’orizzonte per scendere: i due sono sfiniti, compiono una progressione penosa su un pendio verticale di ghiaccio per fortuna durissimo. Tre passi e debbono fermarsi, appoggiano il proprio corpo sopra alla piccozza, recuperano qualche briciola di forza e riprendono a camminare. Si stabilisce in poco un rituale sconcertante di fatica che i due proseguono ad alimentare come se quello fosse l’unico compito assegnatogli dalla vita. Finché la salita sembra desistere e le gambe possono muoversi senza doversi troppo alzare: il terreno su cui poggiano diventa una piccola piazzola pianeggiante, il cucuzzolo arrotondato di una collina dolce oltre il quale non c’è più niente da scalare. Lacedelli e Compagnoni si guardano l’un l’altro e senza dire una parola si abbracciano mentre vengono colpiti da un benedetto e gelido vento da nord che in questi ultimi giorni gli ha permesso di non incrociare nubi, precipitazioni e fitti banchi di nebbia, ma che ora – sulla vetta del K2, finalmente – può asciugarli come salumi messi a seccare. Vorrebbero urlare ma è impossibile; vorrebbero dire al campo base, ai compagni, alle famiglie, agli amici e a tutto il mondo che hanno raggiunto la vetta della montagna più bella del mondo: quel diamante innevato che visto da Concordia li aveva stregati, che nelle foto di Vittorio Sella sembrava così mansueto, che nelle parole di Desio appariva come un terreno da colonizzare, che nella testa di ogni alpinista si configurava come un sogno.
Il vento frusta le giacche e li sposta: sotto di loro un paesaggio innevato di creste e cime e lingue di ghiacciai che segnano la mappa di un territorio sconosciuto e ammirato. Le vene rosse del sole al tramonto sbiadiscono sulla superficie della neve e la notte inizia a farsi largo come il suono di un treno in corsa.
La simpamina è una sostanza appartenente alla famiglia delle anfetamine, oramai vietata e non più in vendita. Nel 1954 questa particolare forma di farmaco era ancora disponibile e alcune scatole facevano parte del grande carico che gli italiani trasportarono durante la loro spedizione. Come tutte le anfetamine, anche la simpamina – presa in piccole quantità – stimola l’attività fisica e psichica riducendo la percezione di stanchezza e dolore, garantendo all’organismo un picco di energia e leggerezza. Mescolata a qualche granello di neve, intorno alle 18:30 quando decidono di ripartire dalla cima del K2, Lacedelli e Compagnoni ingeriscono una pasticca di simpamina. La gola arde e sembra cucita dall’interno, deglutire non è cosa semplice: la neve diventa quindi pasta glutinosa e i due sono costretti a colpirsi sul torace per mandarla giù. Rimettendosi i guanti constatano che il polso non entra: l’imbocco si è congelato e con un coltellino devono spaccare la cucitura e permettere così alla mano di passare. Le operazioni sono però molto complesse, il freddo sembra in grado di mangiarsi la pelle, il vento si ciba invece di uno dei guanti di Compagnoni che, avvitandosi, viene trasportato via e sparisce. Achille impreca, i due si guardano e capiscono: è fin troppo tardi, bisogna partire, bisogna tornare. Perché conquistare una montagna significa fare rientro a casa, significa in altre parole essere in grado di raccontare ciò che si è vissuti, non soltanto viverlo. Il punto di partenza rappresenta sempre anche l’obiettivo finale a cui mirare, ciò che deve muovere ogni esplorazione verso una direzione a lui lontana: non si può conoscere, infine, se non si ritorna a casa pronti a trasformare ciò che si è incontrato in un ricordo attivo valido per il futuro e gli altri.
Sostenuti dallo spirito montanaro più puro, Lacedelli e Compagnoni si mettono in cammino; le gambe non rispondono, incastrate in loro stesse dalla fatica, la simpamina sembra non conoscere la strada per raggiungerle e svegliarle. Nel frattempo la notte ha terminato il suo consueto processo attraverso cui rende tutto ugualmente irriconoscibile: per fortuna il tempo tiene e la luce delle lampade frontali apre microscopici orizzonti nel buio. Come spinti da un’innata conoscenza dello spazio i due arrivano al luogo in cui, al mattino, avevano raccolto i basti con l’ossigeno e lasciato i sacchi piumino: una fortuna a quelle temperature. Lacedelli lo scuote dalla neve che il vento gli ha posato sopra durante il giorno e poi se lo calza sulle spalle, un preziosissimo strato di protezione in più. Intanto Compagnoni armeggiava con una delle tasche interne del sacco, come fosse alla ricerca di qualcosa. Finché non estrae una boccetta, sorridendo: sull’etichetta scritta a mano si leggeva Veleno, ma evidentemente questo non era poiché Achille la aprì e ne bevve un sorso, la passò a Lino e brindò. Era cognac, un quantitativo minimo che però infuocò le gole dei due e li ubriacò immediatamente, stordendoli. La testa inizia a girare e l’euforia del brindisi diventa la forma più angosciante di paura: riusciranno a ripartire? Troveranno la via giusta per il campo VIII? Saranno capaci di prestare attenzione a tutte le difficoltà lungo la discesa?
A quest’ultima domanda, conoscendo il finale della storia, è possibile rispondere in due modi, apparentemente contrastanti ma in realtà contigui: sì e no. Sì, perché Achille Compagnoni e Lino Lacedelli riusciranno a raggiungere le tendine del campo VIII intorno alle 23:00 del 31 luglio 1954. No, perché durante la discesa i due saranno vittime di un paio di rischiosissime cadute, la prima in un crepaccio a seguito della quale si ritroveranno con la neve fino al collo e senza la piccozza di Lacedelli che, inghiottita dall’enorme buco, rimbalzò più volte sulle pareti di ghiaccio emettendo un suono netto, come di ferro contro ferro; la seconda da una barriera di neve che costituiva il labbro superiore di un balcone da cui Compagnoni cadde portandosi giù anche Lacedelli, incapace di tenere lo strappo della corda. In questo secondo caso i due atterrarono sopra un cumulo di neve morbida, probabilmente accatastata lì dal vento della giornata.
Totalmente illesi ma stanchi, sfiniti e persi, i due alpinisti riuscirono ad attaccare in discesa il pendio regolare della Spalla; le torce frontali avevano terminato la loro carica e le loro urla erano afone, spente dall’incendio in gola che non li abbandonava. Erich Abram, in fervente attesa insieme agli altri inquilini del campo VIII, è il primo ad uscire, sicuro di aver sentito qualcosa, una voce: muove quindi la torcia nella notte e i due sbandati hanno finalmente un riferimento verso cui dirigersi. Abram si avvicina, li abbraccia e li riporta in tenda. Alle ore 23:00, quindi, «cinque cuori esultano per la conquista, nella stessa tenda all’ottavo campo». Quei cinque uomini sono, per qualche ora soltanto, depositari di un segreto che li rende felici e orgogliosi di quello che hanno compiuto. Nella pericolosa discrezione di quel rifugio possono tenere tutta per loro la gioia della conquista, momento di purezza ed estatica meraviglia che dura poco, che anzi sembra svanire nel momento esatto in cui si è sicuri di averla afferrata.
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