Backing track
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Ritorno
Racconto #2
Il ritorno fu molto più lungo del previsto. Il segmento di tempo che andava dalla faticosa partenza all’arrivo non fu allungato solamente dalle soste necessarie e dai molti chilometri.
Mentre viaggiavamo silenziosi in quella macchina che sapeva di salsedine e trascuratezza, riuscivamo a malapena a guardare fuori dal finestrino. La striscia d’asfalto e la linea bianca che delimitava la carreggiata erano ipnotiche: l’unica cosa che potevamo fare per trascinarci vivi fino al punto comunemente chiamato “arrivo”.
Visto da qui, forse, quello non fu un vero e proprio ritorno, piuttosto fu l’espressione reale di un’esigenza condivisa, di un sentimento viscerale che ci accomuna e ci rende drammaticamente fragili: la necessità di sentirci protetti.
Ma cosa può proteggere senza essere a sua volta sotto attacco?
Quel viaggio di ritorno rappresentava, all’epoca, una protezione per noi che lo stavamo vivendo e lo volevamo dilatare. Le pause alle piazzole di sosta, i conati di vomito improvvisi, erano tutti modi che ci permettevano di spostare un po’ più in là l’arrivo. In buona sostanza di fingere a noi stessi che tutto era ancora possibile e che la verità (che quella volta, abbiamo imparato, coincideva drammaticamente con la realtà dei fatti, con ciò che succede indifferente alla tua reazione sdegnata) potesse ancora nascondersi implacabile sotto un velo bianco come quello che copriva il corpo di Cesare.
L’ultima volta che lo abbiamo visto c’era molta gente sconosciuta accanto a lui, disteso e immobile, protetto dal telo bianco che si appoggiava delicatamente sulle sue forme asciutte. Cesare era magro come l’antenna di una tv e sotto quello strato sottile di cotone candido la carne sembrava assorbita dalle ossa. Quando gli abbiamo scoperto il volto, i capelli sulla fronte si sono assestati: aveva un’espressione leggera, quasi un sorriso di pace. Tutti insieme alzammo lo sguardo da Cesare per guardarci a vicenda, attraversati dallo stesso brivido che non ci avrebbe più lasciato. Un poliziotto ci chiese di seguirlo in commissariato per raccontarci le ultime ore e testimoniare che si trattava effettivamente di Cesare.
Seduto in quell’ufficio giallognolo che puzzava di carta in decomposizione avrei voluto strillare al poliziotto con la sua camicia a maniche corte che quello non era Cesare, quello era il suo corpo morto, la carne che si stava lentamente macerando, la struttura che lo identificava agli occhi di chi non lo conosceva. Cesare era tutto quello che mancava da quel corpo morto disteso su un letto d’albergo. Era le parole che aveva detto, i gesti che aveva deciso di compiere e le lacrime solitarie, le battute memorabili che nessuno avrebbe potuto nemmeno progettare, il dolore che non sapeva trasformare. Eppure Cesare era anche quel corpo, oramai. Una pesantezza che si sgretolava sempre di più fino a diventare leggera come la polvere.
Il ritorno fu il tentativo di rallentare la trasformazione che la morte di Cesare aveva scatenato. Cesare morendo si era portato via quello strato invisibile di ipocrisia che teneva in piedi la nostra amicizia; nessuna parola è mai riuscita a farci tornare indietro. Non ci scambiammo nemmeno una parola, una volta scesi dalla macchina, rientrati a Roma.
Sono passati esattamente vent’anni dalla morte di Cesare e dal viaggio Bologna-Roma. Vent’anni di silenzio e assurda elaborazione del lutto. Quanti lutti ha generato la morte di Cesare lo sappiamo solo noi, ma nessuna parola è mai stata spesa.
Adesso ci sono solo io, in piedi sotto lo stesso hotel di Bologna, con lo sguardo rivolto verso la finestra della camera che era di Cesare. Gli altri non arriveranno mai e il silenzio continuerà a distruggere.
[Fonte immagine.]